domenica 16 dicembre 2012
Scruton, abbiamo un problema
Il succo del Suo articolo sul Times (riassunto qui dal Foglio) è che è fiorita nel nostro secolo, e ha avuto le sue avanguardie in Inghilterra, una cultura omosessuale che si è fatta potente lobby e che, non contenta di rimuovere la discriminazione, problematica a Suo dire ormai risolta, ha proceduto ad inventarsi diritti come il matrimonio gay e crimini come l'omofobia da imputare a chiunque si opponga al sempre più ambizioso programma di affermazione sociale dell'omosessualità, il cui culmine sarebbe, nientemeno, la sua "normalizzazione". La concessione del matrimonio gay sarebbe dunque uno snaturamento del matrimonio stesso da istituzione a mero contratto interpersonale a termine. Il problema è che in qualche modo ha ragione, ma se la Sua battaglia è questa Lei non è nemmeno alla fine dell'inizio, per dirla con Churchill. Il matrimonio, già nella sua etimologia che rimanda alla parola "madre", è effettivamente un istituto che non è nato per festeggiare due che si amano e mandare bomboniere ad amici e parenti, è nato come strumento di riconoscimento e tutela sociale dell'evento fondamentale alla sopravvivenza della specie, il fare figli. La donna dava all'uomo un erede, e lui, tradizionalmente detentore dei mezzi di sussistenza, con il matrimonio dava a lei e a loro una serie di garanzie economiche e di legittimazione sociale: "moglie di", "figlio di". Tanto è vero che era ed è causa valida di annullamento l'indisponibilità di uno dei coniugi ad avere figli, tanto è vero che limitazioni alla natura dei contraenti sono sempre esistite ed esistono: legami di parentela, numero (è fisso: due) sesso (non dev'essere lo stesso). Quindi giustificazioni legate alla sua natura per non estenderne l'applicabilità, non tacciabili di "omofobia", ce ne sono. Però. E' un po' facile chiuderla qui. E il problema lo sfiora proprio lei citando l'arcifamoso caso di Enrico VIII e Caterina d'Aragona: Enrico VIII si arrogò il potere di cambiare i termini del matrimonio (solo per lui in quel momento ovviamente) perché quelli dell'ortodossia cattolica intralciavano i suoi programmi, il suo desiderio di avere un erede maschio, la sua libertà d'azione. Rings a bell? Ha dato un'occhiata alla società moderna? - che le piaccia o meno. Le sembra o non le sembra una società in cui i disciplinari tradizionali vanno soggetti ad applicazioni sempre più elastiche per adattarsi a un'umanità che non è più quella dei raccolti, delle preghiere, del parroco, delle famiglie-cucciolata, degli orfanotrofi? Le sembra che il peccato, la verginità, l'ortodossia familiare, l'indissolubilità del matrimonio siano categorie che affliggono e assillano l'individuo contemporaneo? O non le sembra piuttosto che oggi ci sono molti che vogliono fare come Enrico VIII, cioè i cavoli loro in materia di "sfera personale", piuttosto che rispondere alle aspettative di una rete di relazioni e di solidarietà sociale direzionata dal magistero della Chiesa (lì dov'è lei ancora più che qui)? Che ne dice dei divorzi multipli, non solo di Elizabeth Taylor ma anche della mia prof. di filosofia e magari della Sua allegra dirimpettaia? dei "prenups", delle convivenze, dei matrimoni di convenienza ai fini più fantasiosi (quelli sempre stati), dei bambini piccoli esposti a pendolarismi incessanti e duelli incrociati sulla loro collocazione nel giorno di Pasqua? A me sembra già un contratto, e a lei? Ripeto, non dico che le debba piacere. Ma che in tutto questo festival dell'edonismo la grande minaccia all'ordine costituito siano i gay che si vogliono sposare alla maniera romantichese in cui ci si sposa oggi e - ironia della sorte - per mettere finalmente un piedino dentro quell'ordine, questo no, questa è una truffa a buon mercato che non può passarla liscia a lungo. Se i gay oggi sembrano più "normali", come dice lei, forse non ci ha pensato, è perché il mondo di oggi è diventato molto più simile a quello che i gay erano in anticipo: meno regolato e vincolato, più mononucleare, più provvisorio, più volitivo, più voluttuoso. Se il mondo che volete è quello in cui il matrimonio è una certa cosa, con certi obblighi, battetevi chiaramente per quel mondo lì e spiegate ai vostri figli che il venerdì è di magro e non si va al McDonald's e che di sesso prima di scambiarsi le fedi non se ne fa (come fa in parte la Chiesa cattolica e infatti ho poco, o meglio altro, da obiettarle, né vorrei vedere il vescovo di Bari che benedice l'unione di Vendola col suo moroso). Buona fortuna a farlo convivere con la modernità, ma ok. Ma fino ad allora tirate sulla corruzione dei valori e degli istituti dei bei vecchi tempi portata avanti dalla "lobby gay" non ne vorrei, grazie.
giovedì 4 agosto 2011
Fiction pulp
Ci sono fatti di cronaca che raccontano più di quel che vorrebbero, diventano, come si suol dire, specchio dei tempi. Quella di cui sto parlando lo diventa non perché il fatto sia particolarmente significativo, ma perché lo è il resoconto che se ne dà. Dunque, qualche giorno fa c'è stata una rapina ai danni di una vecchietta nel centro di Genova; il ladro, intrufolatosi nell'appartamento sotto le spoglie di un idraulico e indotta la signora a entrare nel bagno - con la scusa, chissà, di controllare che funzionasse l'acqua calda - ce l'ha chiusa a chiave dentro, per poi dedicarsi con tutta tranquillità a svaligiare la casa, dalla borsetta allo scrigno portagioie, mentre dal bagno la poverina strepitava furibonda, fino a quando è stata liberata, dopo due ore, da un conoscente che andava a visitarla.
La vicenda è una di crimine comune, certamente spiacevole, specialmente dal punto di vista economico, per la vittima, ma a ben vedere conclusasi senza violenza e in tempi più brevi di quanto avrebbe potuto grazie al provvidenziale sopraggiungere dell'amico. Ma a leggerla sul giornale che la riporta scendono quasi dei brividi lungo la schiena: l'"aguzzino" "...l’ha chiusa nel bagno. Un giro di chiave. Un gesto semplice, ma carico di violenza." Riviviamo poi "le urla disperate", i "120 terribili minuti" di questa "storia inquietante", di questa "truffa con sequestro di persona", insomma, per concludere con le parole del salvatore, Paolo R., 55 anni, "quello che è successo è di una gravità assoluta". Ora: o il nostro cronista è un parente della signora tenuta ostaggio nel suo bagno, o la pagina di "nera" è ormai uno spazio obbligato sui quotidiani nazionali che va riempito anche nei giorni di meritate ferie della compagnia di giro di Avetrana, oppure c'è qualcosa che non va. In ogni caso, se un quotidiano a diffusione nazionale esce con una narrazione thriller-splatter di una storia che si adatta forse più al soggetto di una commedia brillante, e non viene sommerso di lazzi dai suoi lettori (che anzi nella pagina dei commenti deplorano cupi l'accaduto), significa che la nostra società ha perso un po' la bussola di quello che è terribile, allucinante, grave, e di cos'è un aguzzino. Siamo da anni affezionati telespettatori di zii, madri, figli, cugine, fidanzati, collaboratori domestici omicidi, maniaci sessuali, stradali, mafiosi; guardiamo serenamente film a base di squartamenti di budella con la benedizione dell'associazione genitori (basta che non si mostri una tetta), e invece di essere a rischio di assuefazione alla morte
e alla violenza siamo a rischio crisi isterica per una rapina in maschera. Che la risposta sia che la violenza, sempre più assente dalle nostre vite vere e sempre più confinata nel campo dell'intrattenimento, abbia perso ogni potenza espressiva, comunicativa autonoma e sia quindi solo fruibile tramite una rielaborazione letteraria che ne decreta essa sola, con lo stile che decide di adoperare, la portata drammatica, la capacità provocatoria? Che l'articolista del Secolo XIX sia l'anti-Tarantino? la risposta alla decostruzione del pathos? la costruzione sul non-pathos?
La vicenda è una di crimine comune, certamente spiacevole, specialmente dal punto di vista economico, per la vittima, ma a ben vedere conclusasi senza violenza e in tempi più brevi di quanto avrebbe potuto grazie al provvidenziale sopraggiungere dell'amico. Ma a leggerla sul giornale che la riporta scendono quasi dei brividi lungo la schiena: l'"aguzzino" "...l’ha chiusa nel bagno. Un giro di chiave. Un gesto semplice, ma carico di violenza." Riviviamo poi "le urla disperate", i "120 terribili minuti" di questa "storia inquietante", di questa "truffa con sequestro di persona", insomma, per concludere con le parole del salvatore, Paolo R., 55 anni, "quello che è successo è di una gravità assoluta". Ora: o il nostro cronista è un parente della signora tenuta ostaggio nel suo bagno, o la pagina di "nera" è ormai uno spazio obbligato sui quotidiani nazionali che va riempito anche nei giorni di meritate ferie della compagnia di giro di Avetrana, oppure c'è qualcosa che non va. In ogni caso, se un quotidiano a diffusione nazionale esce con una narrazione thriller-splatter di una storia che si adatta forse più al soggetto di una commedia brillante, e non viene sommerso di lazzi dai suoi lettori (che anzi nella pagina dei commenti deplorano cupi l'accaduto), significa che la nostra società ha perso un po' la bussola di quello che è terribile, allucinante, grave, e di cos'è un aguzzino. Siamo da anni affezionati telespettatori di zii, madri, figli, cugine, fidanzati, collaboratori domestici omicidi, maniaci sessuali, stradali, mafiosi; guardiamo serenamente film a base di squartamenti di budella con la benedizione dell'associazione genitori (basta che non si mostri una tetta), e invece di essere a rischio di assuefazione alla morte
e alla violenza siamo a rischio crisi isterica per una rapina in maschera. Che la risposta sia che la violenza, sempre più assente dalle nostre vite vere e sempre più confinata nel campo dell'intrattenimento, abbia perso ogni potenza espressiva, comunicativa autonoma e sia quindi solo fruibile tramite una rielaborazione letteraria che ne decreta essa sola, con lo stile che decide di adoperare, la portata drammatica, la capacità provocatoria? Che l'articolista del Secolo XIX sia l'anti-Tarantino? la risposta alla decostruzione del pathos? la costruzione sul non-pathos?
domenica 27 marzo 2011
150 e non sentirseli
Dunque ci è stato detto, qualche mese fa, che il 17 marzo avremmo dovuto fare una festa, per il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia. Anche quelli mediamente istruiti non sapevano che il 17 marzo fosse una data in qualche modo memorabile, se lo fosse stata d'altra parte ce ne saremmo accorti prima; che il 14 luglio 1789, per dire, fosse successo qualcosa di grosso fu evidente non proprio dal 14 luglio (Luigi XVI la sera di quel giorno sul suo diario scrisse: "Rien") ma dal 15 sì. Eppure dal punto di vista storico e simbolico non si può dire che il 17 marzo del 1861 non sia una data da ricordare: quel giorno, con la proclamazione del Regno d'Italia - cioè, di fatto, il passaggio sotto la Corona di Vittorio Emanuele II di Savoia di tutti gli ex-stati della penisola italiana tranne Venezia e Roma - si ricostituisce l'unità politica dell'Italia per la prima volta dalla calata dei Longobardi nel sesto secolo, e quindi la si costituisce per la prima volta nella storia, visto che prima di allora non si può nemmeno parlare d'Italia in senso moderno, ma soltanto di Impero romano. Il problema quindi qual è? Perché il 17 marzo è stato un fulmine a ciel sereno nella coscienza collettiva?
E' il solito vecchio vizio d'origine del Risorgimento, la guerra di popolo senza il popolo, che è ancora alla base di tanti dei conflitti di oggi, la scarsa legittimità dello Stato in primis. L'Italia è stata fatta dal vertice, e da allora in poi l'unico modo per fare le cose è stato farle fare al vertice: lo sviluppo economico con le aziende in rosso fatte galleggiare con le tasse dei contribuenti, i servizi locali che si sentono del tutto autorizzati a sostenere che non possono funzionare senza trasferimenti miliardari dallo Stato, l'università, la cultura, la televisione eccetera, e quindi anche le feste, con il comico istituzionale chiamato in servizio a ravvivare il patriottismo recitando l'inno di Mameli (il quale a sua volta dovette ricorrere a Scipione a varie ed eventuali romanità per suonare eroico).
E' il solito vecchio vizio d'origine del Risorgimento, la guerra di popolo senza il popolo, che è ancora alla base di tanti dei conflitti di oggi, la scarsa legittimità dello Stato in primis. L'Italia è stata fatta dal vertice, e da allora in poi l'unico modo per fare le cose è stato farle fare al vertice: lo sviluppo economico con le aziende in rosso fatte galleggiare con le tasse dei contribuenti, i servizi locali che si sentono del tutto autorizzati a sostenere che non possono funzionare senza trasferimenti miliardari dallo Stato, l'università, la cultura, la televisione eccetera, e quindi anche le feste, con il comico istituzionale chiamato in servizio a ravvivare il patriottismo recitando l'inno di Mameli (il quale a sua volta dovette ricorrere a Scipione a varie ed eventuali romanità per suonare eroico).
mercoledì 23 marzo 2011
Decìamos ayer
Mi ripropongo di ricominciare ad aggiornare questo blog, in parte commosso dallo scoprire che non è stato soppresso dopo più di un anno di abbandono, in parte perché mi manca scrivere i miei pensierini con un'estensione che non sia quella degli status di Facebook, che pure hanno progressivamente prosciugato i miei interventi qui. E poi adoro le vecchie istituzioni ancora in piedi, e qui si va verso i quattro anni. Sarkozy non era ancora all'Eliseo, e ora è quasi imperatore della Libia. Eccetera.
sabato 27 febbraio 2010
Io
In questi due anni e mezzo di blog non ho mai dedicato molto spazio a me stesso. Lo faccio ora, in maniera un po' obliqua, dando spazio a chi è stato così buono da dare spazio a me dedicandomi il primo ritratto che abbia mai avuto l'onore di ricevere. Ringraziando, pubblico:
Grazie.
Nel corso della vita ogni tanto ci capita di incontrare delle persone in grado di farci stare bene, persone capaci di trasmetterci -senza nemmeno rendersene conto- un senso di serenità a dispetto dei nostri (e dei loro) problemi.
Lo Scoiattolo è una di queste rarissime persone. Ho parlato spesso di lui all’interno di questo blog, il precedente era addirittura "nato per merito (o demerito che dir si voglia) suo". Nel corso degli anni -a partire dal nostro primo incontro- (fortunato per certi sensi, sfigatissimo per altri) il rapporto che ci lega è progressivamente cambiato, si è lentamente trasformato -almeno da parte mia, per quanto riguarda il "lentamente” intendo- in una sincera amicizia. Per me lo Scoiattolo ora come ora è DAVVERO un punto di riferimento, oltre che un carissimo amico.
Perchè ci sono amici su cui -consapevolmente- non posso contare nel momento del bisogno. Sono amici come gli altri eh, validi ugualmente, anche se in maniera diversa, semplicemente non adatti a sostenermi nei momenti (ultimamente peraltro meno frequenti del solito) di crisi. E del resto anche io ho amicizie diverse che comportano un diverso impegno da parte mia nei loro confronti.
Ma non è questo il caso dello Scoiattolo. Decisamente no.
Lo Scoiattolo è un ragazzo mingherlino ma ben proporzionato, con una massa informe di capelli scuri che ricadono disordinatamente sul viso. Ha un bellissimo naso alla greca, un sorriso ingenuo e lo sguardo proprio di chi ha mantenuto l’innocenza del bambino e -parallelamente- ha sviluppato anche la tristezza dell’adulto. Lo Scoiattolo a prima vista non mostra nulla di speciale -nel senso- non è il prototipo dello strafico (per quanto per me sia sempre buono come il pane appena sformato, come un mojito ghiacciato sulla spiaggia rovente etc etc), non è uno che risulta necessariamente simpatico a pelle e a volte quel suo modo di fare un po’ stralunato lo può far sembrare altezzoso (in realtà magari è pure un po’ timido!)…
Poi ci parli, e quando ci hai parlato per un po’ realizzi che invece SI, è un ragazzo speciale. Speciale in quanto “diverso” (approposito dell’intervento precedente ndr.), in quanto “strano”. In lui si conferma la teoria secondo cui a volte l’essere “altro dagli altri” rappresenta un valore aggiunto e non una sfiga. O meglio, NON SOLO una sfiga ma anche un bonus.
Lo Scoiattolo non è perfetto, anzi, è una persona estremamente “umana”, con pregi e difetti -come tutti del resto-. Da quando ho smesso di idealizzarlo ho imparato -spero- a conoscerlo davvero, anche se un ragazzo come lui è difficile da comprendere del tutto, forse perché nemmeno lui si capisce e conosce completamente. Forse perché è ancora “in divenire”. Eppure sono proprio la sua imperfezione e la sua incompletezza a spingermi a dire che gli voglio bene. Voglio bene alla sua dolcezza (e a volte anche la sua involontaria cattiveria), mi piace il modo con cui guarda e vive le cose nuove, apprezzo la sua maniera di interrogarsi, di pensare. Come farei senza i suoi canonici dieci minuti di ritardo? E senza le sue gaffe a ripetizione? Che mondo sarebbe, poi, senza la sua svampitaggine (è l’unico essere umano in grado di lasciare una borsa nel bel mezzo della stazione centrale MIilano (che conferma ancora una volta il ruolo di città Malefica) ndr.)?
Io ‘sto benedetto Scoiattolo lo sento realmente molto vicino a me e al mio essere insomma!
E quando -solitamente un po’ barcollante- torno a casa dopo una serata "delle nostre", semplice, passata fra alcool e lucky strike (e pazzi che ci molestano, calamitati dal suo charme…), a parlare tranquillamente, senza tediarsi, senza silenzi imbarazzanti… io mi sento bene. Mi sento in pace col mondo, sereno, al mio posto.
Mi metto a letto e dormo il sonno degli Angeli (anche per merito della Santissima Escholzia Californica nb.) pensando che se mai avessi un problema davvero grosso potrei contare su di lui, potrei chiamarlo (e probabilmente il povero Scoiattolo risponderebbe pure, assonnato, con la voce da pornodivo tutta ovattata dal raBBreddore) e lui sarebbe altruisticamente nonchè affidabilmente a disposizione (veeero?!?!). Spero peraltro che sappia che da parte mia vale lo stesso discorso: che se mai avesse bisogno di una mano (oppure -in alternativa- di un altro arto/organo interno, amputato o meno) io sono disponibile con tutte le mie limitate possibilità.
Ti voglio tanto bene Fede
Grazie.
mercoledì 17 febbraio 2010
Ah traduttori...
Dopo cinque anni dalla prima lettura, ho finalmente capito uno scambio di battute del romanzo "La versione di Barney" - che consiglio a tutti caldamente - che avrebbe avuto serio bisogno di una n.d.t.
Arnie è il contabile del protagonista, Barney, e gli sta chiedendo da tempo di licenziare il collega Hugh che lo sta tormentando con brutti tiri di ogni genere. Barney finalmente si decide a farlo:
"Tienti forte, Arnie. Sto per licenziare Hugh".
"Ma tienti forte tu!" urlò sputacchiando, e saltò su dalla sedia. "Quello che se ne va sono io!"
Segue acceso diverbio, nel quale Arnie accusa Barney di sbattersi sua moglie. Ma è chiaro che, così com'è, non si vede il senso della reazione di Arnie. Finché non si pensa a come può presentarsi la cosa nella versione originale, nella quale "Hugh", che si pronuncia /hiu:/, può far confondere la frase "I'm going to fire Hugh" con "I'm going to fire YOU". E tutto diventa chiaro.
Arnie è il contabile del protagonista, Barney, e gli sta chiedendo da tempo di licenziare il collega Hugh che lo sta tormentando con brutti tiri di ogni genere. Barney finalmente si decide a farlo:
"Tienti forte, Arnie. Sto per licenziare Hugh".
"Ma tienti forte tu!" urlò sputacchiando, e saltò su dalla sedia. "Quello che se ne va sono io!"
Segue acceso diverbio, nel quale Arnie accusa Barney di sbattersi sua moglie. Ma è chiaro che, così com'è, non si vede il senso della reazione di Arnie. Finché non si pensa a come può presentarsi la cosa nella versione originale, nella quale "Hugh", che si pronuncia /hiu:/, può far confondere la frase "I'm going to fire Hugh" con "I'm going to fire YOU". E tutto diventa chiaro.
giovedì 11 febbraio 2010
Il genio che non si mette in mostra
Le fessure in fondo al sacco del piumino che consentono di aggiustare gli angoli? Ne vogliamo parlare?
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