martedì 29 settembre 2009

Per Santoro

Io non ho mai avuto sussulti d'indignazione all'idea che Michele Santoro, che pure considero un ottimo mattatore di arene televisive, non avesse più uno spazio di due ore e mezza in prima serata ogni settimana. Mi è sempre parsa una scelta editoriale quella di sostituire il suo programma con uno di Socci o con un documentario sui coccodrilli, pur sapendo che in pratica, essendo la Rai quello che è, scelte di questo tipo hanno sempre delle motivazioni politiche o, per essere più esatti, partitocratiche. Però sul piano del diritto di un'azienda a dare e togliere incarichi ai suoi collaboratori non ho mai visto lo scandalo, specialmente se l'azienda è pubblica, fornisce un servizio pubblico pagato dai cittadini e ha quindi il dovere di prescindere in una certa misura da considerazioni puramente commerciali qualora certi standard di decenza non vengano rispettati (come ad esempio succede ogni volta che l'abominevole vignettista di Annozero deride e calpesta i più disparati valori delle persone all'unico scopo di affermare la sua licenza di sghignazzare su qualunque cosa - tranne naturalmente tutto ciò che attiene alla sua lugubre ideologia comunista).
Detto questo, e detto che i difetti delle trasmissioni di Santoro sono belli grossi, specialmente nei servizi, nei quali l'editing mostra tutta la sua capacità manipolatoria attraverso i tagli, le inquadrature, le musiche eccetera, vorrei però dire anche un'altra cosa: che le suddette trasmissioni non sono noiose; e non mi pare poco. Non naufragano nella palude finto-istituzionale di Porta a Porta. Non cadono nel cortocircuito politichese di Ballarò. Sono faziose, ma non noiose, perché non (del tutto) disoneste. Chi va lì si porta l'elmo in testa perché sa che c'è lo squadrone della morte pronto ad assalirlo, ma sa anche che avrà lo spazio per difendersi. Per un Travaglio che ringhia, c'è un Belpietro che sibila, o viceversa fate voi. Non si lascia nulla alla fantasia, si affronta il nemico a viso aperto, e lo spettatore assiste. Anche nei servizi maneggiati. Io, nonostante il montaggio, ho potuto vedere uno dei più inflessibili inviati di Santoro, Corrado Formigli, piombare nello studio di Feltri per farlo a fettine col suo gelido occhio inquisitore, e Feltri più o meno neutralizzare tutte le sue accuse in cinque minuti, invece di conferir loro la dignità della reticenza (stile Berlusconi coi demenziali quesiti di Repubblica). Formigli sarà certamente convinto delle malefatte di Feltri pù di prima, ma io per esempio un po' di meno. E già il fatto che questo sia potuto succedere mi segnala una cosa: che Santoro, forse perché è talmente sicuro di avere ragione da volere il confronto diretto, non fa la disinformazione insidiosa di cui lo si accusa, quella che nasconde le ragioni dell'altro; lui pensa che l'altro si squalifichi da solo nell'istante in cui gli viene data voce, e così gliela dà. Non chiudete Santoro.

domenica 27 settembre 2009

Tante cose



In questa lunga estate di infertilità blogghistica, ho prima costruito un recinto in Irlanda, e ho capito che lavoraccio è e perché sono state così importanti le famose enclosures inglesi per la nascita dell'agricoltura capitalistica, a cui i libri di storia riconducono il decollo dell'economia di quel Paese in un'Europa ancora ingarbugliata negli usi civici e nelle limitazioni alla proprietà privata delle terre.
Bisogna innanzitutto piantare degli enormi pali nel terreno, operazione che richiede una forza superiore a quella di un maschio di media corporatura; poi inchiodare ad essi delle robuste reti, per difenderle da animali di grossa stazza, tipo cinghiali; le reti devono essere tesissime, oggi si usa uno strumento simile a una carrucola a scartamento (nel Cinquecento non so). Ad esse si devono poi avvinghiare delle reti più fini, per chiudere il passo ai conigli, e questo per centinaia e centinaia di metri osservando di non lasciare il minimo spiraglio. Infine sulla sommità dei pali si fissa un insidiossimo filo spinato che è molto refrattario ad essere srotolato e azzanna la pelle con la vivacità di una serpe. Un lavoraccio, dal quale dipende la presenza di cavoli, pomodori, patate eccetera sulla tavola del contadino.

Dublino in dieci anni è cambiata un po' nelle forme: c'è un enorme spillone alto qualche centinaio di metri che simboleggia non so cosa, e non è né bello né brutto, e più catene di bar per le strade. Ma gli irlandesi no: ti vengono incontro al pub chiedendoti consigli su come provarci con quel ragazzo che beve tutto solo dall'altra parte della sala, e il custode di un museo ti spiega che la bandana che hai in testa in realtà rappresenta la bandiera sudista nella Guerra civile americana, e che è sempre meglio sapere cosa si indossa.

Poi di nuovo in Italia, un weekend in un campeggio che è stato un po' come visitare un museo: il museo delle vacanze dell'Italia del Dopoguerra. Oggi l'estate dell'immaginario collettivo, quella che è visibile nei servizi di costume e magari un po' à la page, il vip-watching in Sardegna, l'agriturismo, la vacanza lampo sul Mar Rosso, il low-cost, nasconde un mondo sterminato di cui io mi ero del tutto dimenticato: le famiglie, specialmente del Nord, che prendono su la casa per un mese e costituiscono una città estiva in qualche spiazzo della Riviera, muniti di camper con il déhors con tv, i gerani alla porticina, le chiacchieratine serali col nuovo vicino sul calciomercato, la Stampa al mattino presto; la villeggiatura di un'Italia che ai miei occhi di passante con la mia tenda aveva questa strana sfumatura: c'è ancora (il posto era pieno) e non c'è più; sa di famigliona fuori moda, quella per cui io figlio di genitori separati ho sempre avuto una sorta di intimidita ammirazione, e che in un'Italia che sembra avviata ad assomigliare sempre di più alla mia famiglia mi ha fatto tenerezza vedere in scena nei suoi riti un po' stinti.